L'ARCHETIPO DEL FOLLE da "Gli Arcani della vita" di Widmann
- tarologiaumanistic
- 26 mar 2022
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Parsifal, il puro Folle
Atto primo, Preludio.
Nei territori senza luogo del Graal, nel cuore della foresta sacra un cigno vola in cerchio sul lago, stupendo come un presagio benefico. D’improvviso lo colpisce una freccia assurda e dissonante con la sacralità incantata del luogo; l’eleganza del volo vira in caduta sgraziata.
Quattro cavalieri stupiti e indignati di quella profanazione trovano un ragazzotto tronfio, fiero di “colpire al volo ciò che vola”, che non sa dire perché tirò al cigno, né sa da dove viene e nemmeno come si chiama; da piccolo lo chiamavano in tanti modi: bon fils, cher fils, beau fils, mai con un vero nome.
Ai quattro cavalieri l’autore di quel gesto senza motivo e senza senso sembra completamente matto, un puro Folle; chiamarlo il folle Puro fu complimento.
Nella tragedia di Wagner (1933), Parsifal entra in scena in questo modo, ma viene da molto lontano. Era cresciuto nella selvaggia piana di Soldane, in un mondo di donne governato dalla sua tenera, potente, triste Grande Madre.
La tristezza della donna era scritta già nel nome che portava, Herzeloide, che è come dire “Mal di Cuore” e aveva a che fare con il dolore forte e pungente (un crepacuore davvero) che la trafisse il giorno in cui le portarono la camicia insanguinata di suo marito e la lancia che gli aveva dato la morte in battaglia.
Con affranta determinazione madonna Herzeloide chiamò a raccolta le donne, la servitù, il personale di corte e trasferì la residenza di tutti nella masseria di Soldane. Diede ordine che nessuno parlasse a Parsifal di cavalieri e cavalleria, di tornei e tenzoni, che lui nemmeno sapesse di essere figlio di re.
Voleva per sé un figlio vivo, non il ricordo di un cavaliere morto. Allevò il suo bon fils, cher fils, beau fils nel mondo endogamico della Grande Madre, nel grembo dilatato di un minuscolo regno in cui si risolveva tutto il mondo.
Parsifal crebbe contento del calore e dell’attenzione della madre, e di tutti quei seni, e occhi, e mani sempre amorosamente protesi verso di lui, immerso nella natura, pratico di boschi e ignaro di tutto il resto (Risè, 1999, p. 17). Crebbe contento e semplicione, prendendo tutto alla lettera soprattutto ciò che Mamma gli insegnava, che non era molto, perché il mondo finiva a Soldane ed era tutto sotto ai suoi occhi.
Al di fuori di Soldane - gli aveva spiegato Herzeloide - esiste un Dio che non si vede mai, anche se prende a volte il volto dell’uomo ma è più luminoso del giorno; ed esiste anche un altro, che è il Signore dell’Inferno ed è nero e gli tien dietro ognora il tradimento.
Or ecco, un giorno, giungere al galoppo per le selve di Soldane tre cavalieri e un principe, belli oltre ogni dire con tutti quegli anellini di ferro intrecciati intorno al corpo, tintinnanti di suoni argentini e sfavillanti sotto il sole.
Il ragazzo li scambiò per Dio e si inginocchio a pregarli e pose loro mille domande di stupida ingenuità. Scosse il capo il principe cavaliere, pensando che se un giovane così bello avesse avuto anche il giudizio, Dio lo avrebbe fatto perfetto.
Quel giorno il cavaliere capì che il ragazzo era matto e il ragazzo capì che sarebbe diventato cavaliere.
Quando Parsifal disse alla Madre che voleva andare da re Artù per ricevere l’iniziazione cavalleresca, il noto dolore al cuore trafisse nuovamente madonna Herzeloide, che subito pensò un’astuzia per neutralizzare il proposito del figlio.
“Porterà sul suo splendido corpo dei vestiti da buffone”, si disse; “tutti gli strapperanno i capelli, lo batteranno e lui tornerà indietro, da me”, dopo essersi litigato i resti di un pasto con i cani randagi (Wolfram, ed. it. 1981, p. 88).
Prese allora della tela di sacco e tagliò per il suo bellissimo figlio di re il ben noto vestito dei pazzi: brache e camicia tutte d’un pezzo, un cappuccio in testa e rozzi stivali in pelle d’asino ai piedi. “Nessuno a quella vista si trattenne dal pianto”.
In luogo dell’educazione mai data, Madonna Herzeloide diede a Parsifal frettolosi consigli su come affrontare il mondo: “Saluta e mostrati gentile, ascolta gli insegnamenti dei vecchi, cogli ogni bacio di dama buona e pura”. E lui, che prendeva ogni cosa alla lettera, salutava ogni estraneo con sorrisi fuori luogo, prestava fede a vecchi imbroglioni con l’ingenuità del credulone, baciava donne di altri, che non volevano le sue attenzioni.
A tutti pareva un povero mentecatto. Ma siccome non basta opporsi al destino, come credeva Herzeloide, per vanificare la chiamata del daimon individuativo,
Parsifal arrivò alla corte di Artù nonostante vestisse e agisse da folle. Non solo, ma sotto gli occhi di re Artù (un po’ per equivoco e molto per ignara spavalderia) abbatté il cavalier Ither con il suo giavellotto di ragazzo selvatico.
Così, sulla piana di Nantes un morto valoroso venne spogliato delle armi e un vivo ebbro di cieca stoltezza venne vestito delle stesse armi e investito cavaliere. Gurnemanz de Graharz si prese cura della sua educazione; gli insegnò a cavalcare e a tenzonare, a vestire e a comportarsi con le donne, a non parlare solo della mamma, a non dire sempre “mamma mi ha detto”; gli insegnò anche a non essere sconveniente con le sue domande di ragazzone sempliciotto.
Ripulito d’ogni difetto, Parsifal partì per la ventura e a Gurnemanz parve di perdere un altro figlio.
Il cavaliere senza nome vagò senza meta, fino a giungere al castello dove non giunge chi cerca, ma che trova.
Era il castello del Graal, nascosto dalle nebbie alla vista di coloro che vogliono raggiungerlo, imponente alla vista di chi è destinato a trovarlo. Lì abita Amfortas, il ricco e sofferente Re Pescatore, custode e sacerdote del sacro Graal e della lancia con cui venne trafitto il Cristo in croce.
Com’è nel costume degli uomini, non sempre Amfortas era stato all’altezza del suo compito di custode sacro. Un giorno, una donna di bellezza altera e tragica lo aveva sedotto e, per afferrare lei, aveva deposto la lancia. Prontamente era apparso il nero Klingsor, che gli aveva sottratto l’arma sacra e, per colmo dello spregio, lo aveva colpito con quella stessa lancia.
La ferita inferta aveva natura magica: non rimarginava mai e in ogni momento raggelava il Re Pescatore in un morso di ghiaccio nonostante i mantelli di zibellino, le coperte di lane pregiate, i grandi camini sempre accesi nella sala del trono.
Nulla di tutto questo sapeva l’ingenuo senza nome, quando fu accolto con suprema pompa nel castello incantato. Fu fatto sedere a fianco del re dolorante, partecipò al banchetto e assistette al rito del Graal: un paggio introdusse dapprima una lancia che sanguinava dalla punta e poi entrò la regina Repanse de Schoye (colei che Spande Gioia intorno a sé) con un cuscino di seta verde su cui era poggiata la coppa del Graal sbalzata nello smeraldo.
Parsifal non capiva nulla di ciò che accadeva, ma intuiva che l’opulenza del castello, l’abbondanza del banchetto e forse anche il male innominabile di Amfortas erano in relazione con il Graal.
Era stupefatto e incuriosito, ma ricordò che Gurnemanz gli aveva insegnato a non importunare le persone con le sue domande ingenue e obbedì alla lettera, sbagliando condotta. Rimase in silenzio, come se capitasse tutti i giorni a un ragazzotto ingenuo e tonto di “desinare fra teste coronate scosse da singhiozzi, lance sanguinanti dalla punta e pietre smeraldine fornitrici di ogni ben di Dio; rimase muto, lui come noi, di fronte al dolore dell’uomo, perdendo in questo modo sé e gli altri” (Risè, 1999, p. 90).
Parsifal non lo sapeva, ma tutti intorno a lui speravano che dalla sua bocca uscisse una domanda, perché secondo una profezia un giorno sarebbe giunto per caso al castello un giovane di totale ingenuità, che avrebbe posto fine alla sofferenza del Re Pescatore, se solo avesse chiesto la ragione della sua malattia. Lui era giovane, ingenuo e giunto per caso, ma non chiese.
L’indomani si svegliò in un castello svuotato di ogni traccia di festeggiamenti e pieno di addolorato risentimento contro di lui; venne rimbalzato fuori, nella Guasta Landa della desolazione esistenziale.
Il Senza-nome ripartì senza meta, istupidito nell’errore e consacrato all’Erranza. Nella sua “matta bestialitade” si batté con molti uomini e con cento draghi violenza e sofferenza furoreggiarono su di lui, ma anche per mezzo di lui. Se pazzia deriva da patheia, allora la follia è intrinsecamente imbevuta di sofferenza.
Molte volte il puro Folle incontrò la selvatica Kundry detta la Maga, che sempre gli rimproverava il suo folle errare. Incontrò la donna condannata a sedurre tutti quelli che incontrava, per ridere di tutti quelli che aveva sedotto; a lei aveva ceduto Amfortas e a lei non cedette Parsifal, forse per virtù o forse solo per dabbenaggine. Incontrò un’altra donna, che lo iniziò ai misteri dell’amore nell’asag, che non era una prova (essai) di potenza sessuale, ma “contemplazione della donna nuda” fino a che l’anima non sia completamente impregnata di lei (Risè, 1999, p. 54).
Incontrò un eremita (l’Eremita) che lo iniziò alla Comprensione: della colpa e del dolore, ma soprattutto della Via del Destino e del peso che sempre comporta seguire la via che ci è stata data in sorte. Spesso fu notte e poi di nuovo giorno, senza che egli trovasse mai, per tutte le strade del mondo, la sola che cercava. Per sentieri d’erranza e di dolore Parsifal rettificò le ingenuità del Puro e le intemperanze del Folle, l’evanescenza del fanciullo e le illusioni dello spiritato, il suo narcisismo grandioso e il suo feroce egoismo.
Un giorno incrociò nuovamente Kundry la Maga e quella volta gli parve meno scontrosa. “Ostinato figlio di Gamureth”, gli disse, “ha vinto la tua vita. Hai sofferto quanto dovevi, hai vissuto quanto dovevi apprendere”. Gli fece strada per una fitta boscaglia, attraverso le nebbie che nascondono il castello del Graal e che offuscano la mente di chi cerca.
Di nuovo egli vide il castello che sul monte più alto si protende ancora più in alto; di nuovo fu ammesso alla corte di Amfortas. Guardò il ricco Re Pescatore e vide un uomo sofferente, ancora più raggelato dal suo male indicibile, ancora più prostrato nella sofferenza e gli salirono alle labbra semplici parole: “Ditemi, dolce compagno di un’esistenza di dolore, cosa vi strugge?”.
Quella domanda - scrisse Wagner - fu “redenzione al redentore” (1934, p. 153).

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